Cosa diventiamo quando abbiamo paura?

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• Della paura abbiamo parlato anche in un altro articolo, ma per arricchire ulteriormente la nostra prospettiva su questa forza antica, che molto spesso ci sovrasta, proviamo ad aggiungere qualche osservazione, stavolta partendo da una visione materiale e biologica. Poi vedremo come si può lavorarla attraverso le facoltà dello spirito •

Tutti sappiamo che l’essere umano è la forma di vita neurologicamente più complessa e strutturata del pianeta Terra (e immediati dintorni). Sappiamo anche che la sua complessità è il risultato di stratificazioni che si sono succedute lungo un percorso evolutivo di centinaia di migliaia di anni.

Al suo inizio, la vita era presente in organismi acquatici elementari. C’era poca biodiversità e nessuna intelligenza.
Col succedersi delle ere, le mutazioni negli individui hanno generato specie sempre più numerose e distanti fra loro per forma, dimensioni, capacità.
La comune origine degli esseri viventi, però, continua ad avere anche oggi una grande importanza e concreti effetti, perfino su di noi che ci siamo resi, in una certa misura, indipendenti dalla natura.
Il nostro corpo, cervello compreso, conserva parti – qualcuna atrofizzata, molte altre funzionali – che testimoniano il nostro retaggio di primati, di quadrupedi e, ancora più indietro, di anfibi (e, se vogliamo risalire all’estremo, di organismi cellulari basati su composti del carbonio).
Il cervello umano, in particolare, è una sorta di assemblaggio di diversi cervelli, via via più complessi ed evoluti man mano che partendo dall’encefalo e dal midollo spinale raggiungiamo la neocorteccia esterna.
Grossomodo, le funzioni più elementari, automatiche e “animali” sono svolte dagli strati cerebrali profondi. Viceversa, i prodotti raffinati della mente, come il pensiero complesso, l’espressione artistica e l’astrazione, si svolgono nelle zone corticali, le ultime arrivate in termini di evoluzione.

Gli stimoli dell’ambiente vengono recepiti ed elaborati, a seconda della loro tipologia, dagli opportuni settori del sistema nervoso centrale.
Se stiamo guardando un quadro, magari discutendone con un amico, sarà attivata soprattutto la corteccia, con i suoi numerosi dispositivi finalizzati all’attività intellettuale e comunicativa. Ma se improvvisamente, da un angolo della sala, provenisse uno scoppio e spuntassero delle fiamme, non staremmo certo a pensare, non controlleremmo nemmeno se siamo feriti: tempo una manciata di secondi e ci ritroveremmo a correre verso l’uscita.
In una situazione di pericolo immediato, e quindi di paura intensa, il controllo passa dalla corteccia al più elementare e veloce mesencefalo. Si agisce “d’istinto”, l’espressione dice già tutto.
Quando si sta vivendo un pericolo immediato e grave, l’importante è provvedere subito. In questo caso il pensiero, la valutazione, la ponderazione, diventano una pericolosa zavorra. Il mesencefalo non pensa, bensì riceve l’allarme e attiva la fuga, in tempi rapidissimi. Qui siamo nel campo delle emozioni pure ed elementari, a cui seguono risposte automatiche.
All’innescarsi di una forte paura, in altre parole, rinunciamo alle funzioni intellettive superiori. Viene infatti usata l’espressione “paura irrazionale”. Ma rinunciare alle funzioni intellettive superiori significa, in buona sostanza, rinunciare a una parte importante di noi. La nostra coscienza si spegne, il nostro raziocinio si ritira. Li ricontatteremo dopo, quando saremo al sicuro, lontano dalle fiamme e dal pericolo.
Un tempo questo meccanismo era totalmente affidabile, si attivava alla vista di un predatore, di un rivale, di una frana; svolgeva la sua funzione finalizzata all’autoconservazione dell’individuo, infine si disinnescava.
Oggi il mondo è infinitamente più complesso e individuare i pericoli non è così banale. Le minacce evidenti e dirette sono relativamente poche, ma in compenso sono numerose le minacce indirette, quelle potenziali, quelle a torto o a ragione immaginate…

La realtà in cui siamo immersi è in grado di accendere una grande varietà di paure, con le quali ci misuriamo regolarmente.
Vale la pena di chiedersi: il nostro povero mesencefalo è ancora all’altezza delle minacce che affliggono noi esseri supercivilizzati? Esse non hanno più la forma di un grosso felino o di una tempesta di fulmini, spesso anzi ci raggiungono in forma indiretta e immateriale: notizie trasmesse attraverso uno schermo. È ancora una buona scelta quella di “spegnere il cervello” quando qualcosa ci incute paura?
Stiamo vivendo un momento storico in cui la paura lancia il suo stordente richiamo quotidianamente, senza dare tregua. Non si tratta più di essere invasi dai pochi secondi di panico necessari a fuggire su un albero. Rinunciare ad essere pienamente se stessi con continuità, per così lungo tempo, può davvero essere meno pericoloso di una qualunque minaccia?

Combattere la paura è sempre stata considerata una virtù, e non solo per motivi utilitaristici. Certo, spesso il raziocinio ha consentito di adottare misure migliori di una rozza reazione istintiva, ma l’importanza di non perderci, di rimanere presenti e pienamente noi stessi non è secondaria, poiché questa è anche la condizione che ci assicura il confortevole contatto con il meglio di noi stessi, con la sfera spirituale, con l’”altra parte”, superiore alla materia e all’emotività.
Quando perdiamo noi stessi non siamo più in grado di vedere neppure ciò che ci spaventa, venendo definitivamente invasi dalla pura sensazione.
È facile capire che in una simile condizione di totale chiusura non saremo in grado di ricevere alcun aiuto.

Ma è possibile evitare questo offuscamento, questa regressione, quando un evento, una notizia, una oppressione dell’essere, un fiotto di oscurità interiore, stanno per accentrare in maniera “tossica” la nostra attenzione?
Sì, è possibile. Ci sono diversi modi per farlo. Tutti questi modi consistono nel modificare i nostri automatismi, nel governarli e riadattarli. Nell’inibire l’influenza del primitivo mesencefalo e rimanere pienamente in noi.
Non occorre sapere di neurologia o di fisiologia per controllare la paura, è molto più importante, anzi, essenziale, conoscere se stessi, e successivamente esercitare la propria volontà. Questo è ciò che fanno e hanno fatto innumerevoli esseri umani fin dai tempi più antichi, siano essi meditatori, praticanti di arti marziali, credenti raccolti in preghiera, e molti altri.
Dato che abbiamo degli esempi cui attingere, possiamo verificare che quanto abbiamo detto fin qui non è solo teoria e “laboratorio”.
Osserviamo come esempio il sincero credente. Non occorre si tratti di una figura sacerdotale o addirittura un santo o un martire (ma se si preferisce si può anche guardare a questi soggetti dalla vita più estrema). Cosa hanno tutti loro in comune? La pratica costante del raccoglimento e della preghiera. La preghiera, esercitata come normale attività quotidiana, finisce per diventare un vero e proprio addestramento.
Chi ricorre alla preghiera ne riceve conforto, sollievo, coraggio. Questo perché la preghiera è il rito che mettiamo in atto per rinnovare, ricordare, mantenere continuamente il contatto tra il terreno e l’oltre.
Se ricorriamo alla preghiera con costanza, dedicandole un posto fisso nelle nostre abitudini, sarà molto più immediato e spontaneo appoggiarci alla preghiera nei momenti di forte crisi. Ecco il passaggio cruciale: creare un nuovo automatismo, pazientemente costruito in noi giorno per giorno, grazie al quale conserviamo le nostre facoltà superiori, neutralizziamo l’istinto “animale”… in pratica, scavalchiamo il mesencefalo.
Come ci spiegano molte mistiche e molti mistici, “se l’anima è unita a Dio, tutte le azioni sono preghiera”. Per questo la preghiera può diventare un automatismo consapevole attraverso il quale possiamo mantenere non solo uno stato di presenza, ma anche la connessione con la parte più elevata, la parte sottile di noi.
La raffigurazione tipica del martire prossimo al supplizio, o che lo sta subendo, è in posa di preghiera, con le mani giunte e lo sguardo al cielo. È con questa attitudine maturata e consapevole che il martire vince la paura per ciò che di orribile gli sta per succedere.
Vincere la paura, è bene precisarlo, non significa farla sparire, smettere di provarla. Non avere paura è indice di un dissesto mentale, non di coraggio. Vincere la paura significa permetterle di svolgere la sua sana funzione di allarme, ma senza che dilaghi compromettendo la nostra salute mentale quotidiana.

Parlando della preghiera, Van Houtryve ci ha lasciato un’osservazione profonda, che può essere un’utile guida per chi cerca un modo di avvicinarsi alla sua pratica:

“Per mantenere e fortificare l’equilibrio e la stabilità, bisogna che la vita interiore domini l’azione esteriore, che se ne impossessi e la animi.
Le vere ricchezze sono interiori e l’attività più intensa dell’anima nasce dal raccoglimento. Bisogna stabilirsi nella luce e nell’amore per essere forti e non perire”

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