E TU CHI PREGHI?

da | Articoli

• Quella della spiritualità è una dimensione – e un bisogno – che gli esseri umani avvertono dagli albori della Storia e in ogni angolo del mondo. Tuttavia, pur essendo una tensione universale, la spiritualità viene percepita, coltivata ed espressa in tanti modi diversi. •

Ci sono parole-chiave diffuse in ogni lingua e in ogni cultura, come “preghiera”, “rito”, “meditazione” e così via, che corrispondono ad altrettante pratiche che tutti gli esseri umani conoscono. Ma queste pratiche, descritte da identiche parole, nel loro svolgimento sono molto diverse da luogo a luogo, da epoca a epoca.
Sappiamo, come principio, che ogni espressione della spiritualità è degna di rispetto. Però può sorgere una domanda: qual è il modo più giusto per manifestare, esplorare, accogliere la dimensione della spiritualità?
Per esempio, in alcune religioni si prega sgranando una collana, dall’altra parte del pianeta si mettono in rotazione dei rulli sacri, oppure si fa risuonare una campana di bronzo. Si recita, si canta, si danza, si sta in silenzio, si intonano delle sillabe particolari. Si accendono lumi, o incensi, o si bruciano dei foglietti…
Come mai, se lo scopo è lo stesso e universale, ci sono tutti questi modi, modi che neanche si somigliano fra loro, per raggiungerlo? E soprattutto, quale di questi modi è quello, diciamo così, originale, il più potente?
Per cercare una risposta, proviamo spostarci su un piano che in apparenza non c’entra nulla: quello del nostro cervello e del nostro sistema neurologico.

Una delle preziose caratteristiche del cervello è la plasticità. Questo organo è in grado di modificare se stesso in base alle esigenze dettate dall’ambiente e dagli obiettivi che l’individuo si pone.
Il cervello si adatta, modificandosi fisicamente, attivando e disattivando connessioni elettriche e chimiche tra le sue parti, per parlare una specifica lingua, per muoversi in un territorio con certe caratteristiche, per rispondere agli stati emotivi e ai segnali provenienti dai sensi, e così via.
L’essere umano, già dai primi istanti della sua esistenza, eredita la cultura che lo circonda e con essa le istruzioni per interagire con l’ambiente e con la società a cui appartiene.
Il cervello nato nella foresta subtropicale è fisicamente diverso da quello nato tra i ghiacci perenni o nel deserto. Il cervello nato nel Salento è diverso da quello nato a Milano. Ognuno di essi è fatto su misura per rispondere a uno specifico ambiente. Il che significa che in quell’ambiente si troverà meglio che negli altri.
Se ci pensiamo: perché la prima lingua che si impara è detta “lingua madre”? Perché, trasferendoci in terre lontane, proviamo nostalgia per i luoghi dove siamo nati, perfino quelli generalmente descritti come duri e inospitali? Perché i piatti della nostra infanzia ci sembrano il cibo più buono del mondo? Perché il metropolitano convinto non riesce a dormire nel silenzio della campagna?
Queste sono manifestazioni di come ciascuno di noi è, nel profondo, modellato sulle sue origini, sulla sua identità geografica, sociale, culturale e spirituale. Ciò che ci dà maggiore appagamento, ciò che ci riesce meglio, ciò che funziona meglio per noi, è ciò di cui conserviamo una primitiva impronta.
Ecco allora che stiamo per trovare una importante congiunzione tra universale (cioè quello che vale per tutti) e particolare (cioè quello che vale per i singoli).

Siamo tutti perfettamente in grado di riconoscere negli altri la nostra stessa natura di esseri umani, di creature viventi capaci di emozioni, di pensiero, di sentimenti, di percepire la dimensione soprannaturale come presenza e come bisogno.
È anche vero che molto ci distanzia. Per generazioni abbiamo abitato in terre fredde o calde, verdeggianti o brulle, piane o scoscese. In spazi aperti, in isole. In piccoli centri, in labirintiche città. Non c’è solo questo ad influenzarci, ma già questo basta a modificare l’immaginario, le trame dei sogni, il tipo di pericoli che si corrono, i ritmi del quotidiano, la centralità delle stagioni, la storia, le memorie. E tutto questo modifica profondamente il modo in cui ci rapportiamo con il mondo immateriale, in cui immaginiamo l’invisibile o concepiamo l’idea di paradiso e di inferno. Cambiano le manifestazioni delle malattie, delle influenze negative, quindi le medicine e le pratiche dei guaritori, cambia il loro modo di richiamare e trasmettere le energie benefiche.
Insomma, la nostra complessità di esseri viventi, estesa nel mondo fisico e in quello eterico, ha generato e sviluppato le varianti nei corpi, nei linguaggi, nei gesti, nei riti, nelle visioni.
Non esiste una “classifica”, non esiste una tradizione più efficace o più autorevole di altre. La riprova ce l’abbiamo quando, attraverso le pratiche (ciascuno le sue) risaliamo al Principio, scoprendo che si tratta del medesimo per tutti. Esperienze extracorporee, stati meditativi profondi, estasi, ma anche il meno spettacolare (ugualmente prezioso, però!) conforto che deriva dalla semplice preghiera.

Allora, potremmo dirci, una pratica spirituale vale l’altra? I culti sono intercambiabili? Hanno su di noi lo stesso impatto? Per un occidentale recitare un mantra o una preghiera all’Angelo custode ha lo stesso effetto?
No. In realtà non è così, e non è così perché noi non siamo intercambiabili.
Che lo vogliamo o no, che lo riconosciamo o no, portiamo dentro di noi l’impronta del nostro territorio, dei nostri avi, delle nostre tradizioni, delle nostre divinità. Siamo fatti a loro immagine, ne abbiamo un’ancestrale conoscenza, siamo adatti ad essi, ed essi a noi.

Un rosario non è così diverso da un mantra, una veglia funebre resta tale sia che che venga servito del cibo o no. Si tratta di traduzioni, di linguaggi, di varianti delle medesime pratiche per le medesime finalità.
Ma resta il fatto che il linguaggio simbolico che comprendiamo meglio e in cui meglio ci esprimiamo è il nostro, quello plasmato dai nostri antenati e nel quale siamo nati e cresciuti.
In una parola, abbiamo delle predisposizioni.
Queste predisposizioni ci impediscono forse di abbracciare altre religioni, di praticare lo yoga, di rendere omaggio agli Spiriti della Natura, di recitare proficuamente il nam myoho renge kyo? Certo che no; dobbiamo però esercitare uno sforzo in più, come per captare le note da una stazione radio fuori sintonia. Uno straniero resta tale anche nel Paese più accogliente.
Un vantaggio che indubbiamente possiedono le forme della spiritualità che provengono da lontano è l’aura di ideale purezza, di sincerità incontaminata, di cui sembrano ammantate. Inoltre, gli individui che le adottano compiono necessariamente una scelta fuori dagli schemi e possono apparire più motivati e consapevoli della maggioranza che si attiene alla propria naturale eredità.

Il fatto è che molto spesso ignoriamo l’aspetto più profondo e nascosto della religione a cui, per cultura, apparteniamo. Questo dipende sia da noi che da come il sapere spirituale ci viene trasmesso. Tendiamo ad assuefarci a restare in superficie, e la superficie molto spesso ci viene a noia, come è giusto che sia quando in realtà siamo in cerca di aspetti più profondi.
La forza del cristianesimo è spesso offuscata dalla ripetitività con cui ci approcciamo ai rituali cattolici. E questo vale sia per i credenti che per i sacerdoti.

Quando vediamo che ciò che dovrebbe essere spirituale in realtà è solo apparenza, adesione alle convenzioni, ipocrisia perfino; quando una figura sacerdotale, di insegnamento e di guarigione spirituale si dimostra macchinalmente ripetitiva nell’esercizio delle sue funzioni, incapace di ascolto, o ci mette addirittura a disagio, noi dobbiamo tenere presente che sono solo i limiti umani che stiamo osservando e subendo. Possiamo anche stare certi che tali limiti sono diffusi quanto l’umanità, nello spazio e nel tempo.
Nelle memorie dei nobili imperiali cinesi leggiamo che i monaci buddisti, durante le veglie funebri di importanti cortigiani, sovente anziché recitare i sutra si appisolavano. Nessuno però si sognerebbe di dichiarare non validi la figura e i principi del Budda a causa dell’incuria di alcuni monaci.

Stabilire e mantenere un contatto con la nostra fede richiede volontà, energie, impegno, a prescindere dai gesti e dalle pratiche. Non sempre siamo in piena forma, a volte veniamo meno ai nostri intenti, e così accade anche agli altri, perfino ai “professionisti”.
Possiamo essere scoraggiati, in crisi, avere l’impressione di non trovare nelle immediate vicinanze ciò di cui abbiamo bisogno dal punto di vista spirituale.
In realtà uno dei percorsi più affascinanti e, come si dice oggi, “potenti”, consiste nello scavare in quello che già abbiamo e con cui abbiamo un rapporto molto più intenso e più forte di quello che immaginiamo. Questo non vuol dire che bisogna diventare degli integralisti cattolici, ma che se siamo nati in Occidente siamo, ad esempio, molto più avvantaggiati nella ricerca dell’entità cristica di chi è nato in Tanzania. Guardando al Maestro come se fosse la prima volta, potremmo scoprire all’improvviso una sorgente di Amore e di Sapienza che ci era rimasta nascosta per tanti anni, mentre cercavamo in mille modi di riattivare la nostra energia o di aprire il nostro cuore o la nostra coscienza superiore.
A volte il divino è scherzoso, in un certo qual modo, e ci impedisce di vedere quello che abbiamo sotto gli occhi. A volte la nostra irrequietezza ci trascina altrove, sempre da un’altra parte, proprio mentre non parliamo d’altro che di “cercare le radici”.
Vale la pena di fermarci per un istante e onorare le nostre origini sacre, i luoghi che ci appartengono e la tradizione in cui siamo nati.
Il Sacro, nelle nostre vite, ha iniziato a manifestarsi proprio in quel punto che tendiamo così facilmente a trascurare, quello della nostra nascita. Lo diamo per scontato, lo riteniamo di scarso interesse, ma abbiamo con esso un legame di reciproca appartenenza.
Una forza antica, fatta di rituali, di preghiere, di uomini e donne, di santi e di dei ci lega a sé; e ancora ci richiama con un canto che proprio noi, più di chiunque altro, abbiamo la potenzialità di intercettare e comprendere. Le vibrazioni di questo canto ci attraversano continuamente, siamo immersi in esse.
Chi si vuole mettere in ascolto?

error: Azione disabilitata